(a cura di Peppe Leone)
Il gruppo manifestava in modi singolari la propria ansia, ben consapevoli che quella sera l’evento andava ben oltre il mero aspetto musicale. Ci sentivamo tutti carichi di una responsabilità greve (non ho sbagliato, non volevo dire grave), poco propensi a elucubrazioni tronfie o vetusti rituali preparativi. Io e Alberto, quasi bloccati in una gabbia psicologica, fummo ben tempisti nel cogliere una scintilla appena percettibile nei nostri sguardi, incrociatisi nel fugace ed effimero attimo di una ricerca ipersensibile di comunione extrapersonale. Fu così che rompemmo gli indugi e un piede davanti all’altro, con incedere sbilenco ma non caracollante, appena coperti da vestigia che mal dissimulavano la nostra viscerale trepidazione, ci dirigemmo verso il luogo in cui avremmo cercato insensatamente una corroborazione adrenalinica al nostro più intimo malessere. E con gesti convenzionali, quasi istintivi ci trovammo dentro un posto comunemente denominato “La ruota dei sapori”. In conseguenza alla comunicazione dei nostri desideri palatali ad alcuni inservienti quanto mai vispi e colloquiali, arrivò il momento che fu rivelatore per tutta la serata, credo. Quell’attesa fra la nostra richiesta e l’effettiva materializzazione concreta dei nostri desideri, permise a noi due di cogliere il senso ultimo di tutto quel groviglio di situazioni che aveva portato, in modo piuttosto confuso, al verificarsi dei fatti che stanno sotto gli occhi di tutti. L’attesa, dicevo, ci fece capire non contano le note, quanto lo spazio, l’intervallo che intercorre fra ognuna di loro…
...continua...
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